Green Deal: la grande confusione sotto il cielo

di Andrea Taschini, manager automotive (dal magazine “Parts”)

La transizione energetica europea, l’abbiamo scritto più volte, è una scelta politica non basata su presupposti scientifici. Come capita a tutte le ideologie, il concetto di transizione cambia a seconda della parte politica che sale al potere, allo stesso modo l’opinione dei cittadini muta secondo le mode correnti.

Il risultato è che il mondo sembra sospeso tra chi vorrebbe perseguire piani irrealizzabili con costi sociali elevati e chi più semplicemente chiede di ridare slancio alla competitività del sistema industriale per creare lavoro e ricchezza. Il Green Deal è la partita più importante che Stati Uniti e Unione Europea stanno giocando, mentre i cinesi che assistono allo spettacolo dagli spalti, tifano ovviamente per i loro interessi.

Il nuovo corso americano

Nulla è certo in politica, ma dopo l’attentato a Donald Trump e il ritiro di Joe Biden sembra che i repubblicani abbiano più chances di vincere le elezioni presidenziali rispetto ai democratici. La questione per chi fa industria, ricopre un ruolo fondamentale: si scontrano, infatti, due visioni dell’America e del mondo come mai era accaduto dalla Guerra civile americana del 1863. Le diverse visioni del Green Deal e con esso del destino dell’auto elettrica, saranno il terreno di scontro decisivo sul quale si sceglierà il nome del prossimo presidente degli Stati Uniti.

Le posizioni sono nette e non conciliabili: i repubblicani sono per un rigetto delle istanze ambientaliste, molto protesi nella ricerca di un nuovo rilancio competitivo dell’industria e con esso di livelli salariali incrementali, mentre i democratici continuano a perseguire l’idea di una forte decarbonizzazione che sebbene sia il doppio di quella europea, è decisamente inferiore al loro principale antagonista per ora solo economico e cioè la Cina. Sappiamo come negli USA la corsa presidenziale si giochi principalmente sui temi economici dato che i cittadini a differenza di quelli del Vecchio continente, non godendo di particolari protezioni sociali, derivano il loro benessere dalla capacità del sistema di creare nuove posti di lavoro.

La partita si è quindi rovesciata: coloro che in passato difendevano i lavoratori oggi difendono chi fa affari a Wall Street, mentre la cosiddetta destra, cavalca l’umore molto frustrato della mid-low class che negli anni ha perso potere d’acquisto e stabilità. Stiamo assistendo a cambi di paradigmi storici impensabili solo 20 anni fa i cui esiti condizioneranno senza dubbio il modo di affrontare i temi fondamentali che ci impone la società contemporanea. Trump ha dichiarato apertamente di voler abolire ogni spinta verso l’auto elettrica entro 24 ore dal momento in cui si sarà insediato alla Casa Bianca e questa posizione se verrà attuata, porrà come poi vedremo, un tema industriale imprescindibile alla nostra Europa.

Più idrocarburi, inoltre, significa più industria manifatturiera e più manifattura significa, nelle intenzioni di Trump, meno dipendenza dalla Cina sia attraverso politiche daziarie molto aggressive sia attraverso una più marcata competitività energetica. Un nostro imprenditore a queste condizioni dovrebbe spostare immediatamente il baricentro delle proprie attività proprio in Nord America ed è proprio ciò che potrebbe succedere nel medio termine.

 

Il vecchio corso europeo

Mentre a Washington la campagna elettorale è in pieno corso, in Europa le elezioni si sono da poco concluse con la volontà dell’elettorato di una discontinuità sostanziale rispetto all’ultimo quinquennio. Nonostante ciò, bisogna prendere atto che quello che ci differenzia dai nostri cugini americani, è la caratteristica europea di non avere assetti politici chiari e ben definiti tra chi ha vinto e chi invece perso le elezioni. Il risultato, che allo stesso modo ha tormentato la politica italiana negli ultimi due decenni, è stato quello di riportare al governo di Bruxelles la stessa maggioranza che è uscita dalle elezioni molto ridimensionata.

Rieleggendo Ursula von der Layen a capo della Commissione non solo si è posta una questione politica, che qui a noi interessa relativamente, ma porrà in futuro molto prossimo, qualora Trump raggiungesse la Casa Bianca, un tema ben più ampio e spinoso, quello industriale. Le visioni e le intenzioni dei due leader in materia di Green Deal (ma non solo) appaiono diametralmente opposte e rischiano di schierare i due fronti atlantici su posizioni troppo divergenti per punto di vista del nostro alleato storico che è anche l’indiscutibile perno economico finanziario e soprattutto militare dell’Europa.

Nel recente passato abbiamo già assistito a scontri più o meno aperti (da parte soprattutto tedesca) con Washington e i risultati sono stati il disastroso Dieselgate, costato miliardi di dollari (e di immagine) alle Case auto di Berlino, e il misterioso (ma non poi tanto) episodio dell’esplosione del gasdotto che nel mar Baltico trasportava il gas russo in Germania: due avvertimenti secchi senza possibilità d’appello che dovrebbero far meditare l’intero apparato governativo europeo.

Appare, in un momento di incerta transizione geopolitica, che sbilanciarsi verso politiche poco gradite agli americani sia eccessivamente rischioso soprattutto perché la transizione energetica europea necessariamente sposterebbe inevitabilmente l’Unione verso un asse di cooperazione con Pechino. Tuttavia, Ursula von der Layen, nel suo discorso di insediamento come presidente della Commissione è stata perentoria: “Perseguiremo il Green Deal così come è stato scritto”, pur aprendo a un principio di neutralità tecnologica richiesta a gran voce dal suo stesso partito. L’Europa si avvia, quindi, verso unadecarbonizzazione forzata, quanto inutil,e entro il 2040 che avrà un costo elevatissimo sia sociale sia economico senza, peraltro, produrre alcun vantaggio ambientale, tema da cui tutto il discorso del Green Deal aveva fondato i suoi presupposti politici.

 

Il rischio che incombe e le sue conseguenze

Si può quindi liberamente affermare che se Trump vincesse le elezioni come oggi (23 luglio 2024, nel momento in cui va in stampa questo articolo) sembra probabile, Europa e America si troverebbero su fronti strategici opposti con visioni industriali ed energetiche molto divergenti (per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale) con l’aggravante che il Vecchio continente si spingerebbe verso un’alleanza o meglio una dipendenza inedita da Pechino nello stesso frangente in cui la Cina sta diventando il nemico numero uno degli Stati Uniti. Si capisce che il quadro diverrebbe veramente complesso da gestire soprattutto con l’attitudine americana a non comprendere i barocchismi politici europei considerati poco affidabili.

Insistere con l’auto elettrica ci porrebbe poi in un’antitesi industriale con gli americani che continuerebbero a utilizzare auto endotermiche, riducendo di fatto la massa critica di alcune Case auto tedesche che dovrebbero produrre sia auto elettriche in Cina, non esportabili negli USA per via dei pesanti dazi, sia auto endotermiche per continuare ad avere una presenza negli Stati Uniti. Direi che ce n’è abbastanza per definire la situazione confusa e pericolosa con un’America assetata di rivincita del MAKE AMERICA GREAT AGAIN”. Non sono certo che a Bruxelles si siano valutati tutti i rischi, ma si è dimostrato ancora una volta, se ce ne fosse ancora bisogno, che la fame di potere acceca anche i meglio intenzionati.

Le Case auto europee sono oggi ferme in mezzo a un guado molto scomodo: la Cina incombe con la sua competitività, l’auto elettrica non sta riscontrando alcun gradimento se non nei Paesi del Nord Europa, abbiamo scoperto che da noi produrre batterie è economicamente quasi impossibile per fattori strutturali per lungo tempo immodificabili e chi vincerà negli Stati Uniti la corsa presidenziale, cambierà radicalmente la visione della mobilità a proprio piacimento.

Sono panni scomodi quelli che vestono i CEO delle Case auto nostrane presi tra giravolte, dietrofront e scenari sconosciuti. E’ fondamentale sottolineare che qualche colpa ce l’hanno pure loro perché si sono gettati in una mischia senza prevederne le conseguenze, annuendo e applaudendo a vanvera gli ambientalisti e asservendosi a una politica a caccia di voti, palesemente impreparata, che non ha compreso cosa in realtà significhi un’auto elettrica e quale sia la complessità di una transizione non necessaria in un Continente già sostanzialmente decarbonizzato e, soprattutto, leader nella fabbricazione di automobili che tutto il mondo ci invidia.

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